LA NEWSLETTER DI MICHIL
Secondo il filosofo Umberto Galimberti la società non è complessa, ma semplice, anzi semplificata, perché è il denaro che incorpora i valori maggiori. E quindi Galimberti si chiede: “Cos’è bello, vero, santo, giusto?”.
Anche io stesso mi chiedo: qual è il rapporto fra il denaro e la bellezza, fra il denaro e l’inumano, fra il denaro e la compassione? Siamo algidi di fronte ai drammi nel mondo perché siamo diventati insensibili a causa dei troppi drammi che ci tocca vedere, ascoltare, o siamo distaccati da un mondo più giusto perché il nostro metro di misura è unicamente il denaro?
Eh già. L’unità di misura per gran parte degli abitanti del mondo è proprio il denaro.
Il denaro è di fatto l’unico mezzo per produrre bisogni. Decisivo è il processo, il come si arriva alla pecunia. Disposti a tutto, si producono merci non solo per appagare bisogni, ma si producono bisogni per garantire la continuità della produzione di merci che garantiscono il denaro. Un meccanismo perverso: il meccanismo del capitalismo.
Ovviamente questi processi non accadono a causa dell’intelligenza artificiale o di forze maggiori: il deus ex machina che governa e decide su tutto ciò è l’homo sapiens. Sapiens? Sapiens che produce e sapiens che consuma, dove il consumo non più volto alla soddisfazione di un bisogno, ma è un vero e proprio mezzo di produzione. A proposito di produzione: guai se viene interrotta; guai se le merci prodotte non vengono consumate.
Ci troviamo di fronte ad un iper-consumo, che è un vero e proprio bisogno.Ma questo bisogno non è necessariamente insito nell’uomo, non gli è stato conferito per concessione divina: il bisogno di consumare a dismisura è stato creato ad hoc.
Parola grossa, la creazione. Limitiamoci alla produzione.
Ma come vengono prodotti i bisogni? Con l’avvento dei social questi bisogni sono stati prodotti in modo ancora più potente attraverso il marketing. Non solo, ma si arriva a una situazione nella quale il marketing inventa anche il prodotto. È la coda del cane che, scodinzolando, fa tribolare il cane.
Vado oltre: si inventano degli standard che vanno al di là delle buone pratiche per definire un marchio. Si fanno indagini di mercato, si individuano le cosiddette esigenze, si comunica e poi si produce.
Prendiamo ad esempio l’esperienza. Gli strateghi del marketing, supportati evidentemente da sociologi e psicologi, hanno capito che l’esperienza è quella cosa che può avere successo. Ed ecco uscire dal cilindro i pacchetti esperienziali per i nostri turisti, perché “che barba, che noia” a starsene seduti su un prato.
Oggi più che mai è andata perduta l’importanza del fare le cosiddette “cose inutili”. Ad esempio, dipingere è inutile ai fini utilitaristici, non fosse che ti fa esprimere tutta la tua creatività. Cantare è inutile, non fosse che ti rende felice. Il canto del passero è inutile, non fosse che è Dio che si manifesta attraverso quel passero.
Come le “cose inutili”, ovviamente anche l’ozio pare più che mai un tabù. Penso all’otium nel senso dato dai Romani, ossia come tempo libero dai negotium, le occupazioni politiche o gli affari pubblici.
Il marketing ha trasformato il tempo libero in experience. Ed ecco comparire le slackline, i parchi giochi per adulti in altura, le funivie che girano su sé stesse e in cima al piccolo Cervino è d’obbligo una sala cinema. Altro che Jimi Hendrix. Lui sì, geniale, ha completamente e inconfutabilmente e irreversibilmente mutato l’approccio alla chitarra elettrica; con lui tutto viene inselvatichito, divenendo adrenalina pura. La sua è un’esperienza altissima, che va al di là della musica.
La stupidità dei messaggi che il marketing costruisce e trasmette, evidentemente fa presa sugli esseri umani più stupidi che mai e desiderosi di esserlo sempre di più. Dobbiamo avere quello che ancora non abbiamo, perché altrimenti siamo out, fuori dai giochi.
Tutto ciò è paradossale, e ci sta portando alla rovina.
Tutti noi pensiamo di avere bisogno delle necessità che ci vengono propinate, tutti noi facciamo fatica a limitarci.
Nel turismo, ci vorrebbe un marketing che dice: portami i turisti, ma stai attento che non siano troppi. E come si fa? Ci vuole volontà politica, poiché il turismo non riuscirà mai a limitare sé stesso senza il supporto di una politica che guida; oppure occorrono fattori esterni, qualcosa di più grande e potente, che ci obblighi ad una limitazione subordinata.
Per ora, tuttavia, l’equazione è destinata ad essere la seguente: io albergatore propongo e tu turista consumi. E se non consumi abbastanza mi inventerò cose migliori. Fino a che, fuor di metafora, la montagna non crollerà del tutto.
E poi vorremmo turisti che sappiano godere del paesaggio e che siano ospiti veri e che modifichino il loro approccio alla natura. E come di fa? Magari, forse, provando ad autoeducarci?
La realtà è che siamo una società opulenta sempre più subordinata agli oggetti che possiede, che non solo possono, ma che devono essere sostituiti con prodotti nuovi. Naturalmente inserendo nel messaggio di vendita parole come sostenibilità, ecologia e via andare.
Tutte le cose che produciamo hanno valore -per modo di dire- solo se sono legate alla loro limitata vita. È la conditio sine qua non: una limitata esistenza delle cose, legate all’avanzare e al progredire. E così trovo che la lavatrice che non funziona più dopo cento lavaggi è un implicito appello alla distruzione.
Per non standardizzare -verso il basso- la nostra identità, dovremmo invece pensare out of the box, fuori dagli schemi, pensare e agire come uomini che incarnano dei valori. E ne avremmo tutte le capacità, se è vero che, come dicono gli scienziati, usiamo solo una piccola percentuale della potenzialità del nostro cervello. A guardare quello che stiamo combinando al pianeta Terra, mi vien da dire per fortuna.
Bene, e allora per oggi quel che possiamo dire è di ascoltare lo stridìo dell’aquila, fare qualcosa di buono e rendere grazie. E volerci bene.
De bi salüc
.m